di Federico Tarini Ph.D. in Diritto Tributario Euopeo

Considerazioni preliminari

Prima di procedere all’analisi dell’attuale posizione giurisprudenziale in tema di tassazione delle attribuzioni nel patto di famiglia, pare opportuno soffermarsi brevemente sulla natura dell’istituto, circostanza fondamentale anche ai fini fiscali.

Come più volte sottolineato dalla dottrina all’indomani della novella del 2006, il patto di famiglia assume i connotati di un istituto a natura essenzialmente liberale attraverso il quale il disponente mira a realizzare l’arricchimento dei soggetti coinvolti (assegnatario e legittimari non assegnatari) per puro spirito di liberalità.

Tuttavia, non si tratta di una mera liberalità quanto, piuttosto, di una liberalità avente funzione successoria.

Il trasferimento di aziende o quote associative ben potrebbe essere realizzato anche tramite una semplice donazione. Quello che offre il patto di famiglia è, invece, un’attribuzione stabile e duratura non passibile di essere minata dalla futura successione del disponente

L’imputazione delle attribuzioni effettuate in forza del contratto, definite anche come “anticipazioni della legittima” , sono quindi volte ad attribuire stabilità al passaggio generazionale .

Di conseguenza, le attribuzioni effettuate in forza di patto di famiglia danno vita ad una vicenda sostanzialmente unitaria la quale viene ricondotta dalla dottrina maggioritaria all’interno dello schema della donazione modale .

 

La posizione della giurisprudenza di legittimità

Con l’ordinanza n. 32823 del 19 dicembre 2018, prima pronuncia in materia di tassazione delle attribuzione a favore dei legittimari non assegnatari, la Corte di Cassazione ha riconosciuto che il patto di famiglia assolve ad una funzione anticipatoria degli “effetti della successione”, “al contempo prevenendo future liti divisionali e di riduzione tra coeredi”, rivelando una “natura essenzialmente liberale e donativa”.

Simile connotazione funzionale e causale richiede, a giudizio della Corte, di essere apprezzata fiscalmente alla luce dell’art. 58, primo comma, TUSD e, dunque, applicando la regola prevista per le donazioni modali. Si tratterebbe, si legge nella pronuncia, di un onere non imposto dal disponente ma previsto ex lege che “trova fondamento nel carattere liberale originario del trasferimento”.

Secondo la prevalente lettura dottrinale, dall’applicazione alle attribuzioni realizzate per il tramite del patto di famiglia della regola contenuta nell’art. 58, primo comma, TUS, deriva la configurazione dell’attribuzione rappresentata dall’onere quale autonoma donazione dal disponente al legittimario non assegnatario. Coerentemente con la ricostruzione civilistica, il disponente, tramite l’onere, realizzerebbe due attribuzioni liberali: una diretta (a favore dell’assegnatario), una indiretta (a favore del beneficiario non assegnatario). In questo senso, tale momento attributivo dovrebbe essere assoggettato a tassazione alla luce del rapporto personale, di discendenza in linea retta, tra disponente e legittimario .

La Corte di Cassazione, nella sentenza citata, è però giunta ad una diversa soluzione, qualificando l’attribuzione al soggetto beneficiario dell’onere come una donazione proveniente dal soggetto onerato. Il che comporterebbe la necessità di applicare l’aliquota e la relativa franchigia applicabile in base alla relazione intercorrente fra beneficiario assegnatario e beneficiario non assegnatario .

Al contempo, in tema di applicabilità dell’esenzione di cui all’art. 3, co. 4-ter, TUS, la Suprema Corte accoglie quanto affermato dall’Amministrazione finanziaria “L’agevolazione recata dall’articolo 3, comma 4-ter, del TUS, si applica esclusivamente con riferimento al trasferimento effettuato tramite il patto di famiglia, e non riguarda anche l’attribuzione di somme di denaro o di beni eventualmente posta in essere dall’assegnatario dell’azienda o delle partecipazioni sociali in favore degli altri partecipanti al contratto”   e ciò “indipendentemente dalla civilistica ravvisabilità, nell’istituto in esame, di una causa negoziale unitaria.”

La suprema Corte è però recentemente tornata a pronunciarsi sulle medesime tematiche adottando una posizione parzialmente opposta a quella sopra ricordata .

Innanzitutto, per quel che concerne il richiamato profilo in tema di applicabilità dell’articolo 3, co. 4-ter, TUS anche alle attribuzioni a favore dei beneficiari non assegnatari, la Corte di Cassazione conferma il proprio orientamento.

In particolare, l’inapplicabilità della norma di favore deve essere ricavata dallo stesso dato letterale della richiamata disposizione, la quale fa menzione del solo trasferimento di aziende e partecipazioni sociali e, pertanto, le compensazioni a favore dei legittimari non assegnatari devono “ritenersi escluse dall’esenzione, posto che la norma, come qualsiasi previsione agevolativa, non può che essere di stretta interpretazione, in quanto derogatoria rispetto al regime impositivo ordinario”.

Al contrario, la Corte assume una posizione diametralmente opposta rispetto al proprio precedente del 2018 in tema di aliquota applicabile alla liquidazione a favore dei non assegnatari affermando come queste ultime devono considerarsi donazioni “del disponente in favore del legittimario non assegnatario, con conseguente attribuzione dell’aliquota e della franchigia previste con riferimento al corrispondente rapporto di parentela o di coniugio”.

Difatti, sebbene la liquidazione a favore dei legittimari non sia perfettamente sovrapponibile al modus presente nelle donazioni modali , da un punto di vista fiscale “la situazione è assimilabile, perché all’attribuzione liberale si affianca l’obbligo per il beneficiario di adempiere ad una prestazione, che non costituisce il corrispettivo dell’attribuzione ricevuta, ma la ridimensiona, soddisfacendo altri interessi dello stesso disponente e dei terzi destinatari della prestazione”.

Di conseguenza, la donazione ricade all’interno del perimetro applicativo dell’art. 58, primo comma, TUSD e, pertanto, “la donazione modale avente un destinatario determinato è […] considerata, dal punto di vista fiscale, come una doppia donazione, una eseguita a favore del donatario e l’altra a favore del beneficiario dell’onere”.

 

La giurisprudenza di merito

Le richiamate pronunce della Suprema Corte, ad oggi le uniche in materia di tassazione delle attribuzioni ai legittimari non assegnatari, hanno recentemente trovato un proprio riscontro anche nella giurisprudenza di merito.

Pare quindi opportuno analizzare alcune di queste pronunce al fine di valutare quale sia, ad oggi, la posizione dominante accolta dalle commissioni tributarie.

Il primo contributo che merita di essere analizzato è certamente la sentenza della CTR Abruzzo, n. 552/2021  alla quale la stessa Cass. 29506/2020 aveva rinviato la causa per la determinazione nel merito dell’imposta dovuta.

La vicenda aveva ad oggetto un patto di famiglia con il quale il padre aveva assegnato al figlio le quote di controllo di una società estera, onerando quest’ultimo di liquidare con una somma di denaro la sorella, legittimaria non beneficiaria. I contribuenti avevano ritenuto che entrambe le attribuzioni dovessero ritenersi esenti da tassazione ai sensi all’art. 3, co. 4-ter del TUS; al contrario, l’Agenzia negava l’applicabilità di tale agevolazione in relazione alla liquidazione della legittimaria non assegnataria ritenendola tassabile in via ordinaria, con l’aliquota d’imposta riservata alle donazioni tra fratelli, pari al 6%.

La sentenza, sebbene limitata dal principio di diritto contenuto nella pronuncia di legittimità, ha il merito di schematizzare efficacemente il ragionamento della Suprema Corte, concludendo per l’applicazione dell’imposizione proporzionale a causa del superamento della franchigia di 1.000.000 vigente per i discendenti in linea retta.

In un secondo intervento, proveniente dalla CTP di Varese , i giudici Varesini sono stati chiamati a giudicare la legittimità di un diniego di rimborso con il quale era stato negato il rimborso dell’imposta di donazione, liquidata con l’aliquota del 6%, versata in relazione alle compensazioni fatte dalla beneficiaria assegnataria alle sorelle in forza di un patto di famiglia avente ad oggetto le quote della S.r.l. partecipata dalla madre.

La Commissione tributaria, facendo proprio il ragionamento della pronuncia 29506/2020 della Corte di Cassazione, ha qualificato le attribuzioni a favore dei legittimari non assegnatari alla stregua di un onere ex lege con conseguente applicazione dell’art. 58, TUSD.

Pertanto, le predette attribuzioni sono state considerate alla stregua di liberalità indirette dal disponente ai legittimari non assegnatari con applicazione delle aliquote e delle franchigie pertinenti al rapporto sussistente fra questi soggetti.

Pertanto, i giudici di primo grado hanno ritenuto il rimborso integralmente dovuto.

Medesime argomentazione sono poi riproposte dalla CTP di Reggio Emilia n. 222/2021 chiamata a pronunciarsi circa la tassazione di un patto di famiglia con il quale i coniugi Tizio e Caia trasferivano le quote della società Alfa società agricola al figlio Sempronio, il quale assumeva l’obbligo di liquidare alle sorelle le quote di legittima.

Anche in questo caso, la Corte ha ritenuto che le argomentazioni sopra ricordate consentano di considerare le compensazioni fra assegnatario e legittimari come una donazione indiretta fra disponente e beneficiari non assegnatari.

Di conseguenza, la CTP ha annullato l’atto impugnato in quanto il valore della liberalità rientrava ampliamente all’interno della franchigia.

 

Considerazioni

La giurisprudenza di merito sopra richiamata dimostra chiaramente un generale accoglimento della posizione assunta dalla Cassazione 2020, indubitabilmente più coerente alla qualificazione delle attribuzioni già fatta nel 2018.

L’obbligo imposto in capo al beneficiario assegnatario di procedere alla compensazione dei legittimari non assegnatari, seppur eseguito mediante denaro o beni provenienti dal patrimonio del medesimo assegnatario, deve essere qualificato alla stregua di una liberalità indiretta da parte del disponente.

Una simile considerazione trova il proprio fondamento nell’effettiva unitarietà negoziale delle attribuzioni all’interno del patto di famiglia ove il disponente non intende solo trasferire l’azienda o le partecipazioni sociali all’assegnatario (come avverrebbe in una ordinaria donazione), ma mira anche a liquidare la relativa quota di legittima a favore dei non assegnatari.

D’altro canto, sarebbe totalmente contrastante con il presupposto del tributo donativo assoggettare al prelievo fiscale un trasferimento patrimoniale reso obbligatorio dall’art. 768-quater, co. 2, cod. civ. in quanto privo del necessario requisito della “liberalità”.

Risultano però criticabili le conclusioni raggiunte dalla giurisprudenza di legittimità – e non contraddette dalle commissioni tributarie – circa l’inapplicabilità dell’esenzione di cui all’art. 3, co. 4-ter, TUSD.

Più precisamente, l’esclusione delle assegnazione a favori dei legittimari non assegnatari dal perimetro applicativo dell’esenzione sulla base della sola necessità di interpretare le agevolazioni fiscali “restrittivamente” si scontra con due importanti considerazioni.

In primo luogo, l’interpretazione restrittiva delle norma di favore deve essere controbilanciata da un’attenta analisi circa la ratio della disposizione non potendo un simile principio giungere sino ad escludere dal beneficio fiscale anche posizioni giuridiche astrattamente assimilabili a quelle espressamente individuate dalla disposizione.

In secondo luogo, è fondamentale domandarsi per quale ragione il patto di famiglia ha natura unitaria per quel che riguarda la determinazione dell’aliquota applicabile ma non, invece, per quel che concerne l’esenzione di cui all’art. 3, co. 4-ter, TUSD

Come più volte rilevato anche da parte dell’Amministrazione Finanziaria, la ratio alla base dell’agevolazione è individuabile nell’intento del legislatore tributario di favorire il passaggio generazionale nelle aziende di famiglia.

Mediante la compensazione a favore dei legittimari non assegnatari, il beneficiario del patto di famiglia si limita a riconoscere una parte del valore dell’azienda o delle partecipazioni a favore degli altri assegnatati garantendo, altresì, stabilità e continuità al passaggio generazionale.

Se così è, allora, anche le compensazioni non possono che trovare il proprio fondamento nel passaggio generazionale rendendo, quindi, irragionevole un trattamento differenziato per due attribuzione che, nella sostanza, costituiscono un negozio unitario finalizzato al trasferimento dell’impresa familiare alla generazione successiva.

 

 

 

Commento a Comm. Trib. Reg. Piemonte n. 216/2020 – di Elisabetta Smaniotto
In https://www.fiscalitapatrimoniale.info/post/prima-casa-e-successione-mortis-causa

1. Il caso ed il principio di diritto

L’agevolazione prima casa, in caso di trasferimento a causa di morte, può essere richiesta nel momento della presentazione della dichiarazione di successione, dichiarando che esistono i requisiti per fruire del beneficio fiscale in capo ad almeno un erede, senza individuare il beneficiario seduta stante, bensì identificandolo in un secondo momento.

A supporto di questa tesi l’Agenzia delle Entrate, chiamata ad occuparsi del differente caso della concessione delle agevolazioni per i trasferimenti di beni immobili in aree soggette a piani urbanistici particolareggiati (articolo 33, comma 3, l. 23 dicembre 2000 n. 388), ha evidenziato che “quando il legislatore ha volto subordinare l’accesso ad un trattamento agevolato a particolari formalità da eseguirsi a pena di decadenza, lo ha espressamente stabilito” (risoluzione n. 40/E/2013) e nella fattispecie in esame manca ogni riferimento legislativo al termine entro il quale identificare il beneficiario dell’agevolazione, a pena di decadenza. È quanto chiarito dalla Commissione Tributaria Regionale del Piemonte nella sentenza n. 216/7/2020 del 13 febbraio 2020; sul tema non constano precedenti.

Il caso concreto ha riguardato l’avviso di liquidazione notificato ad un contribuente – per decadenza dalle agevolazioni prima casa – con il quale l’Ufficio voleva ottenere il pagamento di una maggiore imposta ipotecaria e catastale, oltre accessori e sanzioni, in relazione alla successione a causa di morte del coniuge, cui erano chiamati, oltre ad esso stesso contribuente, anche i due figli minorenni.

Al momento della presentazione all’Ufficio della dichiarazione di successione il contribuente, con riferimento al diritto di proprietà di un immobile facente parte del compendio ereditario, aveva richiesto l’applicazione delle agevolazioni fiscali previste per l’acquisto della prima casa, pur essendo già proprietario di un altro immobile acquistato con il beneficio fiscale, cosicché l’Ufficio aveva notificato il citato avviso di liquidazione stante l’assenza del requisito dell’impossidenza, ovvero stante l’assenza di ogni impegno con cui esso stesso contribuente dichiarava di volersi spossessare della casa preposseduta entro un anno (fattispecie che legittima la richiesta delle agevolazioni prima casa: comma 4-bis della Nota II-bis in calce all’articolo 1, TP1).

Il contribuente si era però attivato chiedendo l’annullamento in autotutela dell’avviso di liquidazione (ricorso al quale aveva allegato le dichiarazioni sostitutive di atto di notorietà dei figli con cui questi ultimi avevano dichiarato di volersi avvalere dell’agevolazione), sul presupposto della presenza di tre eredi, vale a dire che chiamati alla successione erano anche i due figli. A suo dire, nell’avviso di liquidazione, privo di adeguata motivazione, l’Ufficio avrebbe dovuto motivare la revoca dell’agevolazione anche con riferimento all’impossidenza dei requisiti da parte di costoro che, invece, avrebbero avuto pieno diritto di fruire dell’agevolazione.

Il giudice tributario di prime (CTP Torino sentenza n. 267/4/19 del 11/2/2019) e seconde cure (CTR Piemonte sentenza n. 216/7/2020 del 13/02/2020), condividendo le osservazioni del ricorrente, hanno argomentato la propria posizione sul fatto che le agevolazioni erano state revocate in base ad un motivo meramente formale consistente nel non aver reso, al momento della presentazione della dichiarazione di successione, la dichiarazione di presentarla ai fini dell’agevolazione prima casa nell’interesse dei figli minorenni.

La disciplina in tema di agevolazioni prima casa, ai fini dell’imposta di successione e donazione (articolo 69, l. 21 novembre 2000 n. 342), rimanda alla nota II-bis posta in calce all’articolo TUR (d.P.R. n. 131/1986) e prevede che per fruire delle agevolazioni prima casa occorre rendere le dichiarazioni all’uopo previste, tra cui “non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni di cui al presente articolo” e l’articolo 69, comma 3, legge 21 novembre 2000 n. 342 prevede genericamente che l’agevolazione compete quando “in capo al beneficiario ovvero, in caso di pluralità di beneficiari, in capo ad almeno uno di essi, sussistano i requisiti e le condizioni previste in materia di acquisto della prima abitazione” (di cui all’articolo 1, TP1, TUR).

Nonostante il documento riportasse la dicitura “prima casa non di lusso per almeno un erede”, secondo l’Ufficio siffatta espressione non poteva essere considerata sufficiente per qualificare l’intenzione di richiedere i benefici prima casa per uno dei figli, bensì risultava palese l’intenzione del contribuente di richiedere il beneficio per la sua persona.

L’Amministrazione finanziaria aveva ulteriormente;

-eccepito l’inidoneità delle dichiarazioni sostitutive presentate ad integrazione della denuncia di successione, poiché prodotte oltre un anno (articolo 31 D.Lgs. n. 346/1990) dall’apertura della successione e soprattutto dopo la notifica dell’avviso di liquidazione, vale a dire tardivamente;

-sottolineato che il contribuente aveva presentato la dichiarazione ai fini dell’agevolazione “prima casa” nel proprio esclusivo interesse, omettendo di dichiarare di essere titolare della proprietà di altri immobili agevolati.

Eccezioni tuttavia non condivise dal giudice tributario.

 

2. L’importanza della pronuncia

La sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Piemonte merita di essere segnalata poiché introduce una novità interpretativa nell’ambito di una disciplina assai consolidata come quella delle “agevolazioni prima casa” e, come tale, nei prossimi mesi si vedrà se il principio sollevato troverà il consenso della giurisprudenza o se invece resterà un precedente isolato.

La novità consiste nel fatto che i giudici tributari hanno ritenuta legittima la scissione tra il momento della richiesta delle agevolazioni prima casa e il momento in cui viene individuato il beneficiario, sul presupposto che al momento della richiesta, astrattamente, almeno uno degli eredi sia in possesso dei requisiti elencati dalla legge per avvalersi del beneficio fiscale.

Ebbene, se nei prossimi mesi la tesi del collegio piemontese troverà seguito, di fatto i casi di decadenza o revoca delle agevolazioni prima casa per mancanza dei requisiti previsti dalla legge si circoscriveranno a rare ipotesi, tenuto conto che nel momento dell’acquisto non sarebbe più necessario individuare il beneficiario dell’agevolazione, essendo concessa una dilazione temporale sine die per farlo.

La disciplina in tema di “agevolazioni prima casa” è dettata:

-per i trasferimenti a titolo di donazione o a causa di morte, nell’articolo 69, commi terzo e quarto, legge 21 novembre 2000 n. 342;

-per i trasferimenti tra vivi:

-ove soggetti ad imposta di registro, nella nota II-bis in calce all’articolo 1 della Tariffa Parte Prima annessa al d.P.R. n. 131/1986 (Testo Unico Imposta di Registro: TUR);

-ove soggetti ad imposta sul valore aggiunto IVA, nel n. 21) della Tariffa A, Parte Seconda, allegata al d.P.R. n. 633/1972;

e trova la propria ratio nell’intento del legislatore di facilitare l’acquisto di una prima abitazione in quanto bene di prima necessità e, come tale, assoggettato dal legislatore tributario al pagamento di imposte ben minori rispetto all’acquisto di altre abitazioni.

Proprio per la ragione assistenziale sulla quale poggia la disciplina in esame, il legislatore ha subordinato il beneficio fiscale ad una serie di presupposti esistenti al momento dell’acquisto, o da conseguire in un arco temporale molto breve (generalmente dodici o diciotto mesi), pena la decadenza.

La nota II-bis pone le condizioni che devono ricorrere per l’avvalimento delle agevolazioni prima casa e tra esse è previsto che il contribuente dichiari di “non essere titolare, neppure per quote, anche in regime di comunione legale su tutto il territorio nazionale dei diritti di proprietà, usufrutto, uso, abitazione e nuda proprietà su altra casa di abitazione acquistata dallo stesso soggetto o dal coniuge con le agevolazioni” in parola.

Requisito di impossidenza che può sopraggiungere anche dopo un anno dall’acquisto purchè nell’atto di acquisto l’acquirente assuma l’impegno di spossessarsi della casa preposseduta entro il predetto termine di un anno dal nuovo acquisto agevolato (comma 4-bis, nota II-bis in calce all’articolo 1, TP1, TUR).

I giudici tributari hanno ritenuto che qualora nella dichiarazione di successione originaria non sia esplicitata l’identità del figlio beneficiario dell’agevolazione prima casa, quest’ultima spetterebbe ugualmente sul mero presupposto dell’esistenza dei requisiti richiesti dalla legge in capo agli eredi diversi dal coniuge (tra cui il figlio).

La CTR ha argomentato siffatta posizione in base alla lettera dell’articolo 69, comma 3, legge 21 novembre 2000 n. 342 nella parte in cui prevede genericamente che l’agevolazione per la prima casa risulta spettante quando “in capo al beneficiario ovvero, in caso di pluralità di beneficiari, in capo ad almeno uno di essi, sussistano i requisiti e le condizioni previste in materia di acquisto della prima abitazione” (di cui all’articolo 1, TP1, TUR).

In sostanza, l’espressione “in capo ad almeno uno di essi” (beneficiari) sarebbe sufficiente per ammettere la richiesta delle agevolazioni senza dover individuare al momento della richiesta l’identità del beneficiario.

Inoltre, sempre a supporto dell’erronea notifica dell’avviso di liquidazione i giudici hanno ulteriormente richiamato un provvedimento di prassi nel quale l’Ufficio ha evidenziato l’assenza di ogni norma che ponga un termine di decadenza entro il quale il beneficiario finale deve essere identificato: i casi di decadenza dalle “agevolazioni prima casa” sono infatti fissati e tipizzati dal legislatore, cosicché non è possibile estenderli ad ulteriori casi (risoluzione 40E del 27/6/2013).

La posizione dei giudici tributari può essere ulteriormente argomentata in base a quei provvedimenti di prassi dell’Amministrazione finanziaria (circolare 38/E/2005, § 9 e risoluzione 110/E/2006) che consentono di potersi avvalere delle agevolazioni in parola rendendo le dichiarazioni all’uopo necessarie in un atto integrativo.

 

3. Conclusioni

In conclusione ci si può domandare se il principio reso nel caso di specie, riferito ad una successione a causa di morte possa essere esteso alla richiesta di agevolazioni per atto inter vivos.

In questo caso pare che il momento della richiesta delle agevolazioni prima casa e il momento della designazione del beneficiario difficilmente possano essere scissi (vale a dire non coincidere), poiché è nel momento in cui viene registrato l’atto che vengono eseguite le formalità presso i Pubblici Uffici e pagate le relative imposte ed è in questo momento che deve essere identificato il beneficiario delle agevolazioni prima casa, se richieste.

Probabilmente il principio dettato dalla Corte piemontese potrebbe operare in quella residuale categoria di atti inter vivos caratterizzata dal differimento degli effetti: si pensi alle vendite sospensivamente condizionate per esempio.

Ad ogni modo, l’identificazione del beneficiario deve avvenire in termini piuttosto brevi poiché il requisito della certezza soggettiva rappresenta un requisito essenziale per l’avvalimento del beneficio fiscale. Sul punto si può citare un precedente della Corte di Cassazione (27 febbraio 2020 n. 5349) che, in relazione al trasferimento di un’abitazione con sentenza di esecuzione in forma specifica (articolo 2932 del Codice civile), ha chiarito che le dichiarazioni prescritte dall’art. 1, nota II bis, TP1 allegata al d.P.R. n. 131 del 1986, possono essere rese, laddove difetti un atto pubblico di compravendita, nel momento della richiesta di registrazione della sentenza e nelle forme di cui all’art. 47 del d.P.R. n. 445 del 2000, risultando la dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà idonea a garantirne la certezza, quanto al relativo contenuto, e la riferibilità soggettiva, quanto al loro autore.

di Elisabetta Smaniotto – Avvocato in Bologna

Commento a Corte di Cass., sent. n. 29506 del 24/12/2020 – di Thomas Tassani. In www.fiscalitapatrimoniale.info

 

1. Premessa

Con la sentenza n. 29506 del 24 dicembre 2020, la Sezione Tributaria della Corte di Cassazione definisce il trattamento tributario, ai fini dell’imposta sulle successioni e donazioni, delle attribuzioni derivanti dal patto di famiglia, correggendo in modo significativo le conclusioni cui la stessa Corte era giunta circa due anni fa (con la pronuncia n. 32823 del 19/12/2018), quando si era trovata per la prima volta ad affrontare la questione giuridica.

Sul piano del ragionamento teorico, la sentenza di Natale 2020 risulta ineccepibile nel momento in cui raccorda la dimensione tributaria con la ricostruzione degli effetti dello strumento negoziale, alla ricerca dell’interpretazione più corretta, sul piano sistematico e teleologico, delle disposizioni del D.lgs. n. 346/1990 (TUSD).

Dal punto di vista dei risultati interpretativi, occorre analizzare (ed apprezzare) distintamente i due profili trattati nella sentenza: da una parte, quello della tassazione ordinaria delle attribuzioni a favore dei legittimari non assegnatari; dall’altro, quello dell’ambito di applicazione del regime di favore di cui all’art. 3, comma 4-ter, TUSD.

2. L’attribuzione del disponente quale donazione modale con onere ex lege

La Suprema Corte, nella sentenza in commento, si interroga in primo luogo circa l’ordinario trattamento impositivo da riconoscere, nel tributo donativo, alle attribuzioni cui il legittimario assegnatario è tenuto, ex lege ed in forza del negozio stipulato, a favore del legittimario non assegnatario.

Per poter individuare le disposizioni tributarie applicabili, la Corte ritiene (correttamente) di dover prima di tutto definire i profili causali e, soprattutto, effettuali delle attribuzioni stesse.

Un percorso analogo era stato condotto anche nella precedente pronuncia n. 32823/2018 (più volte richiamata dalla sentenza in commento) con esiti, almeno per quanto attiene questi specifici aspetti, del tutto analoghi.

A giudizio della Suprema Corte, l’intera operazione negoziale richiede una “lettura unitaria” del patto di famiglia (e quindi delle diverse attribuzioni realizzate) “nell’ambito proprio delle liberalità”. Infatti, con tale istituto si realizza una liberalità a favore degli assegnatari con contestuali effetti di “anticipazione” rispetto all’”apertura della successione” dell’imprenditore assegnatario, oltre che di “divisione tra i legittimari”.

La Sezione Tributaria non solo mostra una salda conoscenza delle teorie di diritto civile in tema di patto di famiglia ma, circostanza ancor più apprezzabile a nostro avviso, ritiene di non dover valorizzare una piuttosto che l’altra soluzione teorica, preferendo una sintesi ricostruttiva idonea a mettere in luce le diverse dimensioni dell’istituto: di liberalità, di anticipazione successoria, di divisione, financo solutoria.

In questa logica, nota la Suprema Corte, “ciò che caratterizza il patto di famiglia, e lo distingue da una qualsiasi donazione che abbia ad oggetto gli stessi beni, è la necessaria presenza del conguaglio in favore degli altri legittimari, esigibile da subito, a cui si affianca l’impossibilità di assoggettare a collazione e riduzione le attribuzioni così effettuate”.

Con specifico riferimento all’obbligo di liquidazione, imposto ai legittimari assegnatari (da effettuarsi in denaro o in natura), la sentenza è netta (così come del resto il precedente del dicembre 2018) nell’accogliere l’idea che si tratti di un onere ex lege. Infatti, “dal punto di vista degli effetti, la presenza di tale obbligo, si sostanzia in un peso gravante sull’attribuzione operata con il patto di famiglia, in tutto simile a quanto accade con il compimento di una liberalità gravata da un onere”.

L’attribuzione dal disponente all’assegnatario deve quindi essere qualificata alla stregua di una donazione modale, per quanto attiene gli effetti giuridici; la differenza attiene invece il momento genetico dell’apposizione del modus, avendo questo, nel patto di famiglia, fonte legale (e non negoziale) ed essendo elemento necessario (e non accidentale) dell’attribuzione.

Nello stesso modo di una donazione modale, l’onere “non costituisce il corrispettivo dell’attribuzione ricevuta, ma la ridimensiona, soddisfacendo altri interessi dello stesso disponente e dei terzi destinatari della prestazione”.

3. La tassazione dell’attribuzione a favore del legittimario non assegnatario quale autonoma donazione da parte del soggetto disponente

Come detto, la conclusione nel senso di ritenere l’attribuzione del disponente del patto di famiglia alla stregua di una donazione modale era già contenuta nel precedente del 2018, sebbene le motivazioni della sentenza in commento risultino avere uno spessore teorico maggiore, evidenziando una grande lucidità e coerenza di pensiero.

Il punto dove però la sentenza del Natale 2020 non segue il precedente del 2018, definendo un vero e proprio revirement interpretativo, è quello delle conseguenze tributarie.

Nel 2018, la Corte aveva infatti affermato che l’esecuzione dell’onere, da parte dell’assegnatario a favore del legittimario, deve essere assoggettata ad imposta “in base all’aliquota ed alla franchigia relative non al rapporto tra disponente ed assegnatario, e nemmeno a quello tra disponente e legittimario, bensì a quello tra assegnatario e legittimario”. Come se fosse da considerare, fiscalmente, alla stregua di una donazione del legittimario assegnatario a favore del legittimario non assegnatario.

Con la sentenza in commento, la soluzione affermata è invece quella [opposta] di considerare la liquidazione “ai soli fini impositivi, donazione del disponente in favore del legittimario non assegnatario, con conseguente attribuzione dell’aliquota e della franchigia previste con riferimento al corrispondente rapporto di parentela o di coniugio”. La liquidazione deve quindi essere trattata come una donazione dello stesso disponente a favore del legittimario non assegnatario, realizzata per il tramite dell’onere gravante sul legittimario assegnatario.

La Suprema Corte giunge a simile risultato ermeneutico, in base ad un analitico esame delle disposizioni del TUSD.

Come si legge nella sentenza, “l’intera sistematica dell’imposta sulle successioni e donazioni evidenzia il principio per cui l’incremento patrimoniale (e quindi l’imponibile) per l’erede ed il legatario è decurtato dell’importo di legati ed oneri loro imposti”.

Al tempo stesso, gli “oneri posti a carico del beneficiario dell’attribuzione e a favore di altri soggetti individualmente determinati, ai fini fiscali, rilevano come attribuzioni provenienti, rispettivamente dal de cuius o dal donante”.

Vengono in rilevo gli artt. 8, comma 3 e 46, comma 3, TUSD; con specifico riferimento alle donazioni, inoltre, l’art, 58, comma 1, a mente del quale “gli oneri di cui è gravata la donazione, che hanno per oggetto prestazioni a soggetti terzi determinati individualmente, si considerano donazioni a favore dei beneficiari”. L’art. 2, comma 49, d.l. 262/2006 è peraltro chiaro nel considerare il modus a favore di un soggetto determinato come un’altra donazione.

L’onere, in buona sostanza, è elemento che, per un verso “ridimensiona” l’attribuzione diretta a favore del beneficiario (riducendone la base imponibile), per altro, evidenza una indiretta attribuzione a favore di un diverso soggetto (da assoggettare autonomamente a tassazione).

Simile paradigma generale delle attribuzioni (inter vivos o mortis causa) modali deve essere applicato anche alle attribuzioni nascenti dal patto di famiglia dato che, sul punto la sentenza è lapidaria, “l’effetto giuridico è in tutto simile all’apposizione di un onere”; “sul piano dell’imposizione, dunque, al patto di famiglia si applica la disciplina fiscale prevista per la donazione modale”.

In modo del tutto coerente con simile impostazione teorica e rimediando ad un evidente errore concettuale contenuto nel precedente del 2018, la Suprema Corte afferma oggi che la liquidazione a favore del legittimario non assegnatario “deve essere considerata, ai fini fiscali, come liberalità dell’imprenditore nei confronti dei legittimari non assegnatari”.

La sentenza chiarisce che simile valutazione tributaria non può mutare per l’osservazione che la liquidazione “sia eseguita dal beneficiario del trasferimento con denaro o beni proprio (o che siano divenuti tali)”.

Questo passaggio potrebbe sembrare superfluo o poco comprensibile, dato che nella logica del patto di famiglia il soggetto che deve procedere a liquidare il legittimario non assegnatario è proprio il legittimario assegnatario e non, invece, il disponente. Tuttavia, esso si spiega per il fatto che la pronuncia del 2018 aveva mostrato di considerare rilevante proprio la movimentazione finanziaria tra assegnatario e legittimario al fine di affermare la tassazione quale donazione tra questi due soggetti.

Bene ha dunque fatto la Suprema Corte a sottolineare questo aspetto.

Così come è importante che la sentenza in commento abbia messo in luce che la soluzione accolta risulti del tutto in linea con il trattamento fiscale che si avrebbe in due alternative fattispecie, ma assimilabili in termini effettuali. Qualora l’imprenditore decidesse di disporre dell’azienda o delle quote per testamento apponendo l’onere, gravante sull’erede o sul legatario, di liquidare gli altri legittimari; oppure qualora l’imprenditore disponesse dei beni dell’impresa e poi, aperta la successione, i legittimari stipulassero un accordo per reintegrare le quote di legittima; in entrambi i casi, i risultati giuridici sarebbero analoghi a quelli determinati dal patto di famiglia con, allora, l’esigenza di definire lo stesso regime impositivo.

4. Le attribuzioni a favore del legittimario non assegnatario non sono ricomprese nel regime di esenzione previsto dall’art. 3, comma 4-ter, D.lgs. n. 346/1990

Una volta definiti gli ambiti di rilevanza, nel tributo donativo, dell’attribuzione a favore del legittimario non assegnatario, la sentenza indaga il differente tema della possibile riconduzione della stessa nel regime di esenzione di cui all’art. 3, comma 4-ter, TUSD. L’applicazione della disposizione agevolativa consentirebbe di definire il completo non assoggettamento ad imposta, a fronte di un regime ordinario che, come si è visto, è basato sull’aliquota del 4% per la parte eccedente la franchigia di un milione di euro.

La norma in esame esenta da imposizione l’attribuzione di complessi aziendali o di partecipazioni societarie di persone o di controllo (se le compagini sono di capitale) a condizione che il donatario si impegni, in atto, a proseguire l’esercizio dell’attività d’impresa o comunque a detenere le partecipazioni o il controllo della società per un periodo non inferiore ai cinque anni.

Secondo la dottrina prevalente, il regime di favore dovrebbe applicarsi a tutte le attribuzioni contenute nel patto di famiglia: sia a quelle dirette dal disponente all’assegnatario, sia quelle indirette a favore dei legittimari non assegnatari. Due sono le motivazioni a sostegno di simile conclusione.

In primo luogo, per la considerazione unitaria dell’intero assetto negoziale, che assolve ad una complessiva funzione liberale e successoria, in cui le attribuzioni e liquidazioni ai legittimari appaiono inscindibilmente connesse alle assegnazioni delle aziende e quote societarie.

In secondo luogo, per l’ampia finalità agevolativa dell’art. 3, comma 4-ter, TUSD, derivante anche da precise sollecitazioni europee (Racc. Commissione CE del 7/2/1994; Comunicazione Commissione CE del 28/3/1998), mirante a tutelare un momento estremamente delicato della vita delle imprese (soprattutto medie e piccole), quello del passaggio generazionale. Qualora il patto di famiglia fosse “destrutturato”, distinguendo, ai fini della esenzione, i trasferimenti agli assegnatari dalle somme attribuite indirettamente agli altri legittimari, risulterebbe frustrata la finalità agevolativa, introducendo effetti di ordinaria (e pesante) tassazione per alcuni segmenti attributivi.

La sostanza della agevolazione è infatti quella di esentare da imposizione il “trasferimento” di aziende o quote societarie, da intendersi quale “arricchimento” del valore corrispondente alle aziende o quote di controllo (FEDELE, Profilo fiscale del patto di famiglia, in Riv.dir.trib., 2014, 526 ss.).

Nella logica del patto di famiglia, l’arricchimento derivante dal trasferimento di quote societarie non è solo quello a favore dell’assegnatario (o dell’assegnatario “principale”), dovendosi invece considerare anche le attribuzioni spettanti ex lege ai legittimari.

Qualora si ritenessero le attribuzioni ai legittimari al di fuori dal perimetro della esenzione, si determinerebbe, quindi, un’esenzione solo parziale, in violazione dello spirito e della lettera della disposizione di legge.

Nonostante la consistenza teorica delle illustrate argomentazioni, la Corte di Cassazione accoglie una interpretazione restrittiva della disposizione in esame, ritenendo agevolabili i soli trasferimenti diretti di azienda e partecipazioni sociali, quelli cioè dal disponente all’assegnatario.

La Suprema Corte valorizza il dato letterale della norma che, nota la Corte, non fa “alcun richiamo alle liquidazioni dei conguagli in favore dei legittimari non assegnatari”, giustificando la “stretta interpretazione” con la natura agevolativa della disposizione.

Si tratta della parte meno convincente della sentenza, per le ragioni poc’anzi evidenziate e perché, in definitiva, la stessa rilevanza europea dell’intervento legislativo (considerato nella sentenza ma non, a nostro avviso, adeguatamente meditato sul piano interpretativo) avrebbe dovuto condurre ad una soluzione esattamente opposta.